Dal 1° gennaio 2022 la sindrome di Burnout diventa fenomeno occupazionale.
Nell’undicesima e recentissima revisione dell’International Classification of Disease, il burnout viene descritto quale fenomeno occupazionale a sé stante.
E‘ doveroso precisare che questa nuova classificazione, che sarà in vigore dal 1 gennaio 2022, non costituisce riconoscimento della sindrome come malattia professionale, con tutte le conseguenze sui lavoratori che ne soffrono che ciò comporterebbe.
Anzi viene ribadito nella stessa ICD-11 che la sindrome da Burn Out deve essere distinta tanto dalle malattie professionali derivanti dai tradizionali fattori di rischio occupazionali (polveri, agenti tossici in agricoltura o in industria, vibrazioni, rischio ergonomico) quanto dai problemi associati a condizioni lavorative comprese nel cosiddetto rischio psicosociale (come lo stress lavoro-correlato, il cambio di lavoro, la minaccia di perdita di lavoro o la disoccupazione).
Come specificato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), non si tratta di una malattia, ma di una condizione medica di DISAGIO LAVORATIVO che interessa in particolar modo le categorie professionali inserite nel settore dei servizi, per la natura comunicativa intrinseca all’attività lavorativa.
La più alta prevalenza della condizione di burn out si riscontra tra i medici (di medicina generale, di medicina del lavoro, di psichiatria), gli infermieri, gli insegnanti, gli assistenti sociali, mentre altre professioni di aiuto, come agenti di polizia e guardie carcerarie sembrano essere meno coinvolti, forse per effetto di una selezione pre-assuntiva di tali lavoratori, che esclude gli individui con dimostrata ipersensibilità (attraverso questionari psicoattitudinali che spesso valutano anche i tratti personali predisponenti al burnout).
In campo sanitario, la sindrome da burnout rappresenta un nuovo fattore di rischio psicosociale emergente, sempre più frequente anche per la crescente carenza di personale assistenziale rispetto all’enorme domanda.
La nuova classificazione ICD-11 incentra il burnout sull’esaurimento individuale delle risorse emozionali.
In particolare, una condizione irrisolta di stress cronico conduce al progressivo sviluppo di sentimenti di deplezione emotiva, negativismo o cinismo, congiuntamente all’aumento della distanza mentale dal proprio lavoro e alla diminuzione del senso generale di efficacia, configurandosi come un vissuto lavorativo spiacevole destinato, in mancanza di interventi esterni mirati, ad autoperpetuarsi e generare gravi conseguenze.
Cosa comporta la nuova classificazione di Burnout?
Il preminente vantaggio della nuova definizione sarà quello di poter ottenere dati ed informazioni qualitativamente utili per lo sviluppo futuro di ulteriori analisi approfondite volte a comprendere meglio i fattori causali in gioco.
La presenza di una diagnosi ufficiale di burnout faciliterà infatti nei prossimi anni il disability management dei lavoratori affetti dalla patologia, così come l’accesso al trattamento.
Nell’ottica della Total Worker Health (letteralmente, “la salute totale del lavoratore”), che indica la prospettiva propria della Medicina Occupazionale del nuovo millennio di focalizzarsi sul benessere completo della forza lavoro, l’inserimento di appropriati programmi di riduzione del burnout tra le misure di prevenzione e promozione aziendali consente, con livelli moderati di investimento, di ampliare l’orizzonte della gestione della salute e della sicurezza dei lavoratori, con risultati incoraggianti sul benessere aziendale.
Che cosa significa il Burnout?
Il burnout si caratterizza per stress, insoddisfazione sul lavoro, depressione, alienazione, umore basso, ansia, tensione, sensazione di “logoramento”, “nervi”, noia, stanchezza cronica, cattiva salute mentale, crisi personale, malinconia professionale e esaurimento vitale.
All’interno degli ambienti di lavoro la sindrome si manifesta con esaurimento energetico, disaffezione emotiva al lavoro e ridotta realizzazione professionale. Il forte disagio emotivo che si esprime sul luogo di lavoro rende necessaria una corretta valutazione e gestione del rischio psicosociale in tutte le sue sfumature.
Negli operatori sanitari, categoria maggiormente a rischio, è stata osservata una progressione nello sviluppo della sindrome: la prima fase di entusiasmo idealistico che spinge ad un forte impegno nel lavoro lascia gradualmente il posto alla “stagnazione”, fase in cui cessa la spinta motivazionale e avanzano i sentimenti di disillusione e profonda delusione; la percezione dell’inutilità del proprio operato porta al crollo emotivo e alla frustrazione, che, perpetuandosi, conducono verso il disimpegno emozionale e l’apatia professionale.
Burnout e stress da lavoro – correlato
Il burnout si differenzia dallo stress da lavoro.
Lo stress lavoro-correlato (o, più correttamente, lo stato patologico che ad esso consegue) è definito come una risposta psicofisica negativa che si manifesta quando le richieste dell’ambiente di lavoro superano le capacità del lavoratore di fronteggiarle.
È ben noto che l’esistenza di fattori di stress non corrisponde obbligatoriamente alla comparsa di uno stato di sofferenza. L’uomo che introdusse il concetto di stress in medicina, Hans Selye, pubblicò un libro di grande successo, intitolato “Stress without distress”, proprio per sottolineare che ad una forte tensione lavorativa può conseguire un vantaggio in termini di benessere (il cosiddetto “eustress”) quando l’individuo riesce a fronteggiare vantaggiosamente la minaccia.
Nel linguaggio comune, e purtroppo anche in molte pubblicazioni scientifiche, si usa lo stesso termine “stress” per indicare sia la causa (i fattori di stress presenti nel lavoro) che la conseguenza patologica di uno stress di intensità eccessiva o di durata prolungata. Si tratta pertanto di un termine generico che fa riferimento al fisiologico processo di adattamento proprio di tutti gli esseri viventi, e che correttamente dovremmo indicare come “tensione, minaccia, opportunità”.
Viceversa, è di interesse medico solo la conseguenza del fallimento della reazione generale di adattamento: l’esposizione professionale a uno stress irrisolto e prolungato conduce al distress, la condizione di malessere percepita dal lavoratore. Il distress non è ancora una malattia, ma può diventarlo.
Al contrario, il burnout può essere considerato come un tipo particolare e specifico di risposta allo stress da lavoro cronico, che si verifica soprattutto negli individui che erano inizialmente dotati di particolare entusiasmo e di elevate aspettative verso il lavoro. Esso rappresenta la fase finale dell’insuccesso adattativo che deriva dallo squilibrio a lungo termine tra richieste e risorse.
In altre parole, tutti possono sperimentare distress, mentre il burnout può essere esperito solo dai lavoratori che affrontano il lavoro con grande motivazione ed abnegazione. Il rischio è massimo per coloro che si dedicano al lavoro in modo totalizzante, i cosiddetti “lavoro-dipendenti”. Da non confondere con il work engagement o passione per il lavoro, che è invece benefica e protettiva per il benessere del lavoratore.